Le lucciole di Pasolini, il vuoto politico e filosofico della modernità

Il primo febbraio del 1975 sul Corriere della Sera, Pasolini pubblica un articolo chiamato “il vuoto del potere in Italia”, che divenne poi famoso con il nome di “articolo delle lucciole”, così pubblicato negli Scritti Corsari . Con estrema dolcezza poetica Pier Paolo Pasolini denuncia un “qualcosa causato da  gravissime trasformazioni sociali”. Tale “qualcosa” viene paragonato alla rapida scomparsa delle lucciole nelle campagne italiane . Attraverso questa metafora, l’autore compie un’ analisi sociologica (quasi filosofica) dell’ Italia di quegli anni . La storia della Repubblica italiana, secondo Pasolini, può essere divisa in tre grandi periodi :  prima della scomparsa delle lucciole, durante la scomparsa delle lucciole e dopo l scomparsa delle lucciole . Il periodo prima della scomparsa delle lucciole, che coincide con un dominio politico totalmente democristiano, altro non è che una continuazione del regime fascista “ violenza poliziesca, disprezzo per la Costituzione, continuità dei codici, medesimi valori (Chiesa, patria, famiglia, obbedienza, disciplina e ordine)” . La Repubblica Italiana, continua Pasolini, nasce e cresce con tali valori, ma è in grado di opporre al fascismo solo una democrazia puramente formale . Ma gli occhi degli italiani, anche quelli meno lungimiranti, riuscivano, o forse si illudevano, che sotto questi formalismi qualcosa c’era, e questo qualcosa erano proprio le lucciole . Gli stessi occhi non riuscirono però a vedere la fase durante la scomparsa delle lucciole . Nessuno infatti si accorse che si stava confondendo il benessere con una crescita economica puramente falsa . Vuoi infatti per l’ ammaliante fascino malvagio della società dei consumi, vuoi per la complessità di quel periodo storico, le lucciole scomparvero una ad una . Si approda così nel periodo  dopo la scomparsa delle lucciole . Questo è il periodo del vuoto, il periodo in cui dietro i volti sorridenti dei politici vi è il nulla . Questo vuoto non è solo politico, ma si estende sia alla società che al mondo di pensare . Tale situazione può essere interpretata come promotrice del nichilismo di Lyotard, Vattimo e Galimberti . E’ lecito dunque dire che alla scomparsa delle lucciole di Pasolini corrisponde la fine dell’ epoca Moderna, sostituita dal “Post-moderno” . Questo nuovo scenario filosofico oscilla tra chi sostiene una “morte dell’ esperienza”, rifacendosi al nichilismo di  Nietzsche e Heidegger, e chi propone un barlume di speranza, presentandosi però come una vana illusione in un mondo roso dalla società dei consumi . Nel 2010 però il filosofo e critico d’arte francese Georges Didi-Huberman pubblica un libro “come le lucciole”, in cui, analizzando proprio l’ articolo di Pasolini, propone uno scenario diametralmente diverso . Secondo lui la luce delle lucciole non è sostituita dal buio, ma da un enorme faro che proietta luce artificiale . Il post moderno, possiamo riassumere, non ha sconfitto le piccole lucciole cancellandole dalla storia, ma le ha rese obsolete, come una piccola luce naturale coperta da un faro abbagliante .

Cosa sono dunque le lucciole ? Apparentemente, dall’ articolo di Pasolini, possiamo intenderle come ideali politici, ai nostri occhi anacronistici . Ma proprio il poeta friulano lascia intendere una concezione assai più profonda . La definizione di lucciole spazia infatti tra le sorgenti della cultura popolare e un sistema di pensiero ormai scomparso . Per capirla a fondo però bisogna conoscere il “il comune sentire” tanto caro a Pasolini che, attraverso parole molto poetiche, celebrava così :

Io, purtroppo, questa gente italiana, l’ avevo amata : sia al di fuori egli schemi del potere, sia al di fuori degli schemi populistici e umanitari . Si trattava di un amore reale, radicato nel mio modo di essere .

Ritrovare le lucciole vuol dire ritrovare la propria capacità di sentire, fuggendo l’ abbagliante luce del faro, come diceva proprio Georges Didi-Huberman, per andarle a cercare nella notte dove sopravvivono e si amano . Oppure, come diceva Pasolini, bisogna dare via l’intera Montedison (oggi noi forse diremmo Luxottica) per una lucciola .

La tranquillità dell’ animo : la misura contro la nausea

 

Non tempestate vexor sed nausea (non soffro per un tempesta ma per nausea) . Così Sereno riassume i suoi tormenti, invocando l’aiuto del suo maestro Seneca . Il De tranquilltatate animi è uno dei dialoghi di Seneca più profondi, ma sicuramente è quello più attuale . Sereno infatti è un giovane politico romano, fedele alla dottrina stoica (conosce bene la dottrina del suo maestro), ma è afflitto da sofferenze dell’ animo . Rifugge il vitium eppure non riesce a liberarsi del morbo che lui stesso definisce fluctuatio (oscillamento) . Seneca, all’inizio di quest’opera, ci offre infatti un’ immagine meravigliosa : un navigante, ormai in vista del porto (metafora propria del mondo antico, che indica sapienza) è tormentato non dalla tempesta che si è lasciato alle spalle, ma dall’ oscillare continuo di un mare che non è ancora calmo .  Sereno quindi non si sente ancora pronto per raggiugere la sapienza, così si appella al suo maestro spirituale. Seneca sa bene che raggiungere la tranquillitas è assai più difficile di fuggire il morbus, anche per questo il filosofo di Corduba esordisce citando Democrito, considerato da molti uno dei precursori e ispiratori  dello stoicismo . Seneca riprende infatti il concetto di εὐθυμία, che traduce con il sostantivo latino tranquillitas . Democrito invita infatti a fuggire le imprese che sono più grandi di noi, ma soprattutto esortava a non osservare coloro che sono inviadiati, ma di volgere i nostri sguardi ai più poveri e a coloro che stanno male affinché le nostre sofferenze, al confronto, ci appaiano inferiori . E’ necessario ora riflettere sull’ attualità di questo pensiero . Bisogna ricordare che Sereno è un giovane politico romano, che si sta preparando al carriera pubblica . Da questo momento, Sereno deve ricordare che la buona politica consiste nell’occuparsi degli ultimi e dei più deboli . Seneca quindi non sta solo parlando a Sereno, un giovane stoico romano, ma si sta appellando anche a tutta la classe dirigente romana affinché non smarrisca il proprio obbiettivo . Visti e considerati i tempi moderni un messaggio del genere non è solo universale, ma anche eterno . Ovviamente l’ attualità del pensiero senecano non si esaurisce qui . Seneca ricorda al giovane Sereno che la chiave per la tranquillità dell’animo si trova nell’ equilibrio tra il deprimersi e l’ esaltarsi, il continuo ondeggiare tra questi due stati d’animo infatti porta al sibi displicere (l’essere scontanti di sé). Il deprimersi conduce ad un’inerzia infelice, che alimenta il livore e la malvagità . A questo punto Seneca ci offre altre due immagini bellissime . Nella è descritto prima  un’ uomo depresso per la scabbia che gode nel grattarsi le proprie ferite . Nella seconda Seneca ricorda Achille che si girava continuamente nel letto in seguito alla morte di Patroclo . Entrambe le immagini richiamano quindi una sofferenza propria di un sintomo depressivo, ma che può avvicinarsi alle sofferenze causate dal troppo entusiasmo . Seneca infatti si concentra sull’ incostanza dell’ esaltazione e sull’ eccessiva depressione . Entrambi gli stati d’ animo alimentano il livore, il morbus del nostro animo, che noi dobbiamo combattere con la virtù . Il concetto di virtus è fondamentale nella dottrina stoica, qui Seneca lo definisce come la capacità di mescolare il sentimento e la ragione, l’ esaltazione con la depressione, l’ozio con il necotium . L’uomo virtuoso è l’uomo saggio, che non esagera né si tira indietro . A tal proposito Seneca riapre il discorso della paupertas, ma sta volta dalla parte dei poveri . Seneca affronta la questione apparentemente in modo assai semplice :

Dunque dobbiamo pensare quanto più lieve sia non avere che perdere : e comprenderemo che la povertà ha tanto meno materia di sofferenze quanto minore ne ha di danni

La condizione di povertà infatti consente all’ uomo una condizione più serena, in quanto non può perdere nulla . Seneca non esorta però a fuggire tutte le ricchezze come facevano i cinici, ma semplicemente di misurarle : Adsuescamus a nobis remuovere pompam et usus rerum, non ornamenta metiri (abituamici a rimuovere lo sfarzo e a misurare l’utilità, non gli ornamenti delle cose) . Il messaggio di Seneca è assai importante e non meno attuale . Una vita serena è una vita all’insegna della semplicità, della purezza e gli eccessi devono essere rimossi; tale concetto è allargato non solo alle cose materiali, ma anche al nostro animo e ai nostri pensieri . La soluzione per sconfiggere l’eccesso è  solo una :  è necessario chiedere ricchezze a noi piuttosto che alla sorte . La “grandezza” della famosa massima senecana ( La grandezza dell’uomo sta nel sopportare con serenità le avversità degli uomini e del destino) è proprio questa . L’ uomo ha in sé la capacità di misura, di pensiero, solo quando l’uomo è capace di misurare allora si può dire sereno  . Sereno, uomo politico romano, ha ora la chiave per instaurare un saldo rapporto con sé stesso e con gli altri, può governare in maniera corretta e soprattutto è capace di affrontare i propri turbamenti.   Adesso la nave di Sereno può avere un tragitto calmo e arrivare al porto della sapienza .

Le origini dell’ idea dell’ anima : Platone ed Epicuro a confronto

Nella Grecia antica, uno dei più importanti argomenti di discussione e speculazione filosofica era il concetto di anima . Numerosi filosofi ne hanno discusso, ma tutti hanno contribuito fortemente alla costruzione di un’ idea “moderna”  di anima . Platone ed Epicuro ci offrono due visioni dell’ anima quasi antitetiche, ma che hanno avuto pesanti ripercussioni nella storia del pensiero occidentale .

Platone era solito definire l ‘anima con il sostantivo πνεύμα (pneuma), intendendo “un’ idea dello spirito diffusa “ . Il Dialogo platonico di riferimento è senza dubbio il Fedone: in quest’ opera si inaugura infatti  l’innatismo,  uno dei capisaldi della dottrina platonica che verrà poi ripreso dal razionalismo cartesiano (tralasciamo ovviamente le forti ripercussioni che ha avuto sulla dottrina del Cristianesimo) . A questa dottrina il filosofo ateniese collega il concetto di “reminiscenza”: l’ anima, essendo sempre esistita, garantisce delle conoscenze innate .Oltre a sostenere la preesistenza dell’anima, Platone era anche convinto della sua immortalità e della sua eternità: l’anima è viva per definizione e un corpo è vivo o morto a seconda che abbia o meno un’anima; l’anima, quindi, dà e toglie la vita. E’ un qualcosa che partecipa all’idea di vita e che di conseguenza non può partecipare a quella di morte. Dal punto di vista gnoseologico, l’anima disincarnata coglie facilmente le idee nell’Iperuranio perché solo lì (in assenza del corpo) essa è veramente libera e da sola corrisponde all’ essere intellegibile ; il corpo invece corrisponde all’ essere sensibile , tant’ è che è corruttibile ed impedisce all’ anima di cogliere il vero essere , che non è il nostro mondo , bensì quello delle idee ( di cui il nostro è solo una pallida copia ) . All’ anima libera dell’ Iperuranio si contrappone l’ anima prigioniera del corpo, così infatti Platone, attraverso le prole del suo maestro, conclude il Fedone :

“Sembra ci sia un sentiero che ci porta, mediante il ragionamento, direttamente a questa considerazione: fino a quando noi possediamo il corpo e la nostra anima resta invischiata in un male siffatto, noi non raggiungeremo mai in modo adeguato quello che ardentemente desideriamo, vale a dire la verità. Infatti, il corpo ci procura innumerevoli preoccupazioni per la necessità del nutrimento; e poi le malattie, quando ci piombano addosso, ci impediscono la ricerca dell’essere. Inoltre, esso ci riempie di  amori, di passioni, di paure, di fantasmi di ogni genere e di molte vanità, di guisa che, come suol dirsi, veramente, per colpa sua, non ci è neppure possibile pensare in modo sicuro alcuna cosa. In effetti, guerre, tumulti e battaglie non sono prodotti da null’altro se non dal corpo e dalle sue passioni. Tutte le guerre si originano per brama di ricchezze, e le ricchezze noi dobbiamo di necessità procacciarcele a causa del corpo, in quanto siamo asserviti alla cura del corpo. E così noi non troviamo il tempo per occuparci della filosofia, per tutte queste ragioni. E la cosa peggiore di tutte è che, se riusciamo ad avere dal corpo un momento di tregua e riusicamo a rivolgerci alla ricerca di qualche cosa, ecco che, improvvisamente, esso si caccia in mezzo alle nostre ricerche e, dovunque, provoca turbamento e confusione e ci stordisce, sì che, per colpa sua, noi non possiamo vedere il vero. Ma risulta veramente chiaro che se mai vogliamo vedere qualcosa nella sua purezza dobbiamo staccarci dal corpo e guardare con la sola anima le cose in se medesime.

Nella Repubblica, ma anche nel Fedro, Platone avanza anche una tripartizione dell’ anima . Secondo il filosofo, l’ anima dell’uomo può essere razionale (che risiede nel cervello, appartiene alla classe sociale dei filosofi, ed ha come metallo rappresentativo l’oro) irascibile (che risiede nel cuore, appartiene ai guerrieri e ha come metallo rappresentativo l’argento) e concupiscibile (che risiede nelle viscere, appartiene agli artigiani e ha come metallo rappresentativo il rame) . In base a questa divisione dell’intelletto, Platone costruirà la sua città ideale, proiettando la divisione dell’anima in una divisione sociale, che costituisce il pensiero politico espresso nella Repubblica .

Diogene Laerzio, parlando della dottina dell’ anima di Epicuro, dice “ἡ ψυχὴ σῶμα ἐστι λεπτομεπὲς παρ’ ὅλον τὸ ἄθροισμα παρεσπαρμένον” (l’anima è un corpo costituito da particelle sottili) . Non a caso lo storico della filosofia pone il la riflessione sull’ anima subito le riflessioni sugli atomi , nel decimo libro della sua maggiore opera .  Già della parola σῶμα, è chiaro che Epicuro dà all’anima una natura corporea, quasi corpuscolare, successivamente Il filosofo di Samo si concentra sul concetto del’ anima come πλείστην αἰτίαν (prima causa) delle sensazioni . L’ anima è capace di realizzare l’effetto della sensazione per poi distribuirlo su tutto il corpo . Il corpo invece si occupa di ricevere il fascio di atomi, (simulacrum, come ci racconta Lucrezio nei sui versi)   per questo, precisa Epicuro, l’anima non può essere “prigioniera nel corpo” . L’anima, una volta abbandonato il corpo si dissolve, perdendo così la capacità di carpire (verbo usato proprio da Lucrezio) le sensazioni . Infine Epicuro critica una visone incorporea dell’ anima . Egli sostiene infatti che l’incorporeo può essere pensato solamente come vuoto, ma poiché il vuoto non può far patire nulla, limitandosi a offrire il movimento attraverso di sé, l’ anima non può che essere formata da materia . Diogene Laerzio cita poi altre fonti riguardo ad una divisione dell’anima : quella razionale (situata nel petto) e quella irrazionale (spersa in tutto il resto del corpo) . La divisione dell’ anima è stato oggetto di discussione anche da parte dell’ epicureista Lucrezio, il quale dedicò il III libro del suo De rerum natura alla divisione tra  animus e anima . Per il filosofo latino l’ animus è la sede delle facoltà razionali e dei sentimenti, mentre l’ anima è la forza vita, la sensibilità che si diffonde in tutto il corpo .

Numerosi sarebbero i collegamenti da approfondire, ci basta però concludere affermando che queste due scuole filosofiche hanno contribuito allo “scontro” tra razionalismo e empirismo, idealismo e materialismo e che ancora oggi inonda la nostra mente di domande .