“Le leggi sono le condizioni, colle quali uomini indipendenti ed isolati si unirono in società stanchi di vivere in un continuo stato di guerra e di godere una libertà resa inutile dall’incertezza di conservarla. Essi ne sacrificarono una parte per goderne il restante con sicurezza e tranquillità”
Questa, secondo Cesare Beccaria, è “l’origine della legge”, cioè di un accordo civile e sociale che tutti i cittadini, senza alcuna distinzione, sottoscrivono al fine di garantire alla comunità la libertà e la giustizia. L’opera “Dei delitti e delle pene”, massima espressione della cultura illuministica italiana ed europea, racchiude infatti profonde riflessioni sull’entità del diritto penale, sulla sua esecuzione e sulle conseguenze filosofiche, giuridiche e diplomatiche della legge. Alla base del ragionamento del giurista di Milano, troviamo la consapevolezza che lo stato è la massima entità al quale la società non può non fare riferimento; ogni delitto, infatti, è un danno che un individuo commette contro lo stato, quindi contro quella comunità di cittadini che sacrifica parte della propria libertà affinché la giustizia sia l’unico motore della società. Nonostante Beccaria riconosca l’autorità del sovrano, sebbene inteso come legittimo depositario delle libertà dei cittadini, è ben presente nella sua tesi la trasformazione dell’essere umano, da suddito a cittadino, da un oggetto che subisce passivamente l’ordine sociale a soggetto centrale della società. Questo aspetto trova maggior realizzazione nel superamento nel legame tra necessità della pena e la definizione di tirannia, è infatti di Montesquieu la frase” Ogni pena che non derivi dalla assoluta necessità è tirannica”, che Beccaria, invece, reinterpreta in questo modo:
“Ogni atto di autorità di uomo a uomo che non derivi dalla assoluta necessità è tirannico”
Questa forte espressione, di acceso carattere sentenzioso, non solo sottolinea la necessità della procedura giudiziaria, penale o civile che sia, ma definisce il sistema giuridico come un insieme di atti da uomo a uomo, dunque, una serie di azione che caratterizza l’essere umano stesso. Questa considerazione ci porta dunque ad una rivalutazione del ruolo del sovrano all’interno della società moderna e illuministica: egli diventa un depositario delle leggi e, dunque, della libertà dei propri sudditi. Si abbandona così l’idea di un monarca che sia superiore al potere giudiziario, che per secoli aveva contraddistinto il medioevo. L’aspetto teorico del pamphlet di Beccaria si realizza infine in un teorema generale, presente nelle Conclusioni dell’opera:
“perché ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino, dev’essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata a’ delitti, dettata dalle leggi”
La rivoluzione di queste parole risiede nello spostamento dell’idea di giustizia, la quale si realizza solo, ed esclusivamente, nell’umanità della pena nei confronti del privato cittadino. La precedente asserzione definisce così un principio generale del diritto moderno, il quale cerca di fondere assieme pubblico e privato, rispetto con libertà, il tutto per garantire la piena giustizia all’interno della società civile.
Tuttavia l’opera di Beccaria ha poco di teorico, anzi, come precisa l’autore stesso, si sforza di essere un manuale pratico e pragmatico, nel quale sono analizzate l’aspetto concreto delle pene e tutti i casi in cui possa sorgere dubbi sul metodo e sul merito dell’applicazione delle pene stesse. Un aspetto caratterizzante è l’attenzione verso le sensazioni del privato cittadino nei confronti della legge e della condanna, proprio per questo Beccaria definisce il principio dell’estensione e non dell’intensione (intensità) della pena, alla quale lega la prontezza della stessa, intesa come strumento per la rapida associazione, da parte del reo, tra delitto e punizione. La pena allora deve essere utile, tanto per il colpevole quanto per la società che ha subito un danno. Sotto questa teoria dell’utilità della pena Beccaria rivaluta tutti quelli che sono stati gli strumenti giudiziari del passato, primi fra tutti la pena di morte e la tortura. Sono infatti famose le invettive del filosofo milanese verso queste ultime. Per quanto riguarda la prima, è applicata il principio dell’utilità della pena, precedentemente presentato. Egli sostiene infatti che la condanna a morte è sostanzialmente e materialmente non necessaria, poiché da essa lo stato e la società ricaverebbe soltanto la distruzione di una sua parte, cioè di un suo cittadino. Allo stesso modo la pena capitale è definita come strumento che genera impressioni di forza e violenza, le quali però non hanno alcuno effetto né sulle menti dei rei, né sulle menti dei potenziali tali. Le impressioni, chiamate anche passioni, sono davvero utili e valide solo nel caso in cui sono frequenti, moderate e continue e non violente, sanguinose e disumane. Infine Beccaria sottolinea il rischio che la pena di morte diventi uno strumento di spettacolo, in quanto eseguito nelle pubbliche piazze, dal quale solo futili passioni, come compassione e sdegno, si possono ricavare. Anche la tortura è considerato uno strumento disumano, per il principio per cui “un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice”, ma oltre all’inutilità pratica, questa barbara pratica si configura come un mezzo sicuro per allontanarsi dalla verità, è infatti definita infame cruciuolo della verità. Sembra difficile infatti che esseri umani, sottoposti a così tanto dolore fisico e psicologico, possano fornire una testimonianza che possa essere definita attendibile, pensiero ripreso anche da Foscolo, il quale nelle sue Ultime lettere a Jacopo Ortis cita Beccaria: “le pene crescono coi supplizi”.
Il saggio analizza attentamente tutte le altre pratiche penali, dalla carcerazione preventiva al carattere della sanzione, tuttavia è ben visibile la ratio che permette di considerare il pamphlet come un testo base del diritto moderno, ossia la centralità dell’essere umano, al quale non competono sillogismi astratti o principi metafisici, bensì la praxis della vita nella società moderna, che trova sbocco nelle necessità pratiche e materiali dell’uomo, accompagnate dalla rivalutazione del significato umano della parola diritto. È sicuramente difficile cercare di contestualizzare l’opera di Beccaria nel mondo contemporaneo, internazionale e globalizzato, da un lato i procedimenti giudiziari sembrano ormai aver integrato nei propri complicati meccanismi le procedure descritte e i principi annoverati, dall’altro i cittadini, le membra dello stato, coloro ai quali è destinata il saggio, non percepiscono più la macchina giudiziaria come un organo giusto e libero. Ebbene la giustizia e la libertà sono le basi del pensiero libero e se il mondo occidentale vuole continuare a essere tale non può che riscoprire un classico come Cesare Beccaria e le bellezze del suo pensiero tanto rivoluzionario quanto libero.