Dei delitti e delle pene: la rivoluzione delle leggi

Le leggi sono le condizioni, colle quali uomini indipendenti ed isolati si unirono in società stanchi di vivere in un continuo stato di guerra e di godere una libertà resa inutile dall’incertezza di conservarla. Essi ne sacrificarono una parte per goderne il restante con sicurezza e tranquillità

Questa, secondo Cesare Beccaria, è “l’origine della legge”, cioè di un accordo civile e sociale che tutti i cittadini, senza alcuna distinzione, sottoscrivono al fine di garantire alla comunità la libertà e la giustizia. L’opera “Dei delitti e delle pene”, massima espressione della cultura illuministica italiana ed europea, racchiude infatti profonde riflessioni sull’entità del diritto penale, sulla sua esecuzione e sulle conseguenze filosofiche, giuridiche e diplomatiche della legge. Alla base del ragionamento del giurista di Milano, troviamo la consapevolezza che lo stato è la massima entità al quale la società non può non fare riferimento; ogni delitto, infatti, è un danno che un individuo commette contro lo stato, quindi contro quella comunità di cittadini che sacrifica parte della propria libertà affinché la giustizia sia l’unico motore della società.  Nonostante Beccaria riconosca l’autorità del sovrano, sebbene inteso come legittimo depositario delle libertà dei cittadini, è ben presente nella sua tesi la trasformazione dell’essere umano, da suddito a cittadino, da un oggetto che subisce passivamente l’ordine sociale a soggetto centrale della società. Questo aspetto trova maggior realizzazione nel superamento nel legame tra necessità della pena e la definizione di tirannia, è infatti di Montesquieu la frase” Ogni pena che non derivi dalla assoluta necessità è tirannica”, che Beccaria, invece, reinterpreta in questo modo:

“Ogni atto di autorità di uomo a uomo che non derivi dalla assoluta necessità è tirannico”

Questa forte espressione, di acceso carattere sentenzioso, non solo sottolinea la necessità della procedura giudiziaria, penale o civile che sia, ma definisce il sistema giuridico come un insieme di atti da uomo a uomo, dunque, una serie di azione che caratterizza l’essere umano stesso. Questa considerazione ci porta dunque ad una rivalutazione del ruolo del sovrano all’interno della società moderna e illuministica: egli diventa un depositario delle leggi e, dunque, della libertà dei propri sudditi. Si abbandona così l’idea di un monarca che sia superiore al potere giudiziario, che per secoli aveva contraddistinto il medioevo. L’aspetto teorico del pamphlet di Beccaria si realizza infine in un teorema generale, presente nelle Conclusioni dell’opera:

 “perché ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino, dev’essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata a’ delitti, dettata dalle leggi”

La rivoluzione di queste parole risiede nello spostamento dell’idea di giustizia, la quale si realizza solo, ed esclusivamente, nell’umanità della pena nei confronti del privato cittadino. La precedente asserzione definisce così un principio generale del diritto moderno, il quale cerca di fondere assieme pubblico e privato, rispetto con libertà, il tutto per garantire la piena giustizia all’interno della società civile.

Tuttavia l’opera di Beccaria ha poco di teorico, anzi, come precisa l’autore stesso, si sforza di essere un manuale pratico e pragmatico, nel quale sono analizzate l’aspetto concreto delle pene e tutti i casi in cui possa sorgere dubbi sul metodo e sul merito dell’applicazione delle pene stesse. Un aspetto caratterizzante è l’attenzione verso le sensazioni del privato cittadino nei confronti della legge e della condanna, proprio per questo Beccaria definisce il principio dell’estensione e non dell’intensione (intensità) della pena, alla quale lega la prontezza della stessa, intesa come strumento per la rapida associazione, da parte del reo, tra delitto e punizione. La pena allora deve essere utile, tanto per il colpevole quanto per la società che ha subito un danno. Sotto questa teoria dell’utilità della pena Beccaria rivaluta tutti quelli che sono stati gli strumenti giudiziari del passato, primi fra tutti la pena di morte e la tortura. Sono infatti famose le invettive del filosofo milanese verso queste ultime. Per quanto riguarda la prima, è applicata il principio dell’utilità della pena, precedentemente presentato. Egli sostiene infatti che la condanna a morte è sostanzialmente e materialmente non necessaria, poiché da essa lo stato e la società ricaverebbe soltanto la distruzione di una sua parte, cioè di un suo cittadino. Allo stesso modo la pena capitale è definita come strumento che genera impressioni di forza e violenza, le quali però non hanno alcuno effetto né sulle menti dei rei, né sulle menti dei potenziali tali. Le impressioni, chiamate anche passioni, sono davvero utili e valide solo nel caso in cui sono frequenti, moderate e continue e non violente, sanguinose e disumane. Infine Beccaria sottolinea il rischio che la pena di morte diventi uno strumento di spettacolo, in quanto eseguito nelle pubbliche piazze, dal quale solo futili passioni, come compassione e sdegno, si possono ricavare. Anche la tortura è considerato uno strumento disumano, per il principio per cui “un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice”, ma oltre all’inutilità pratica, questa barbara pratica si configura come un mezzo sicuro per allontanarsi dalla verità, è infatti definita infame cruciuolo della verità. Sembra difficile infatti che esseri umani, sottoposti a così tanto dolore fisico e psicologico, possano fornire una testimonianza che possa essere definita attendibile, pensiero ripreso anche da Foscolo, il quale nelle sue Ultime lettere a Jacopo Ortis cita Beccaria: “le pene crescono coi supplizi”.

Il saggio analizza attentamente tutte le altre pratiche penali, dalla carcerazione preventiva al carattere della sanzione, tuttavia è ben visibile la ratio che permette di considerare il pamphlet come un testo base del diritto moderno, ossia la centralità dell’essere umano, al quale non competono sillogismi astratti o principi metafisici, bensì la praxis della vita nella società moderna, che trova sbocco nelle necessità pratiche e materiali dell’uomo, accompagnate dalla rivalutazione del significato umano della parola diritto. È sicuramente difficile cercare di contestualizzare l’opera di Beccaria nel mondo contemporaneo, internazionale e globalizzato, da un lato i procedimenti giudiziari sembrano ormai aver integrato nei propri complicati meccanismi le procedure descritte e i principi annoverati, dall’altro i cittadini, le membra dello stato, coloro ai quali è destinata il saggio, non percepiscono più la macchina giudiziaria come un organo giusto e libero. Ebbene la giustizia e la libertà sono le basi del pensiero libero e se il mondo occidentale vuole continuare a essere tale non può che riscoprire un classico come Cesare Beccaria e le bellezze del suo pensiero tanto rivoluzionario quanto libero.

Amnistia e indulto, una controversia ormai troppo lunga

 

Nella storia della Repubblica Italiana l’amnistia e l’indulto sono stati spesso oggetto di dibattiti, critiche e battaglie. Essi, nonostante tutto, rientrano nell’ordinamento dello stato, data la loro presenza nella Costituzione italiana, titolo I, articolo 79, che afferma:

“L’amnistia e l’indulto sono concessi con legge deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale.

La legge che concede l’amnistia o l’indulto stabilisce il termine per la loro applicazione.

In ogni caso l’amnistia e l’indulto non possono applicarsi ai reati commessi successivamente alla presentazione del disegno di legge.”

Il precedente articolo concede dunque al Parlamento la possibilità di deliberare nel metodo, tuttavia ne riconosce l’esistenza come strumento democratico. Si ripete spesso che l’amnistia e indulto sono mezzi di pacificazione sociale, tuttavia le critiche sollevate verso esse fanno appello al principio di certezza della pena, uno dei punti centrali del diritto moderno. Sembra infatti difficile far collimare il diritto all’indulto e all’amnistia con l’opposta coattività e imperatività della pena, se infatti i primi sono strumenti attraverso i quali il reo trova l’opportunità di entrare nuovamente all’interno della società civile, senza passare, o passando solo parzialmente, attraverso il carcere, la solidità della pena permette alla società di allontanare elementi che hanno leso, delinquendo, la struttura della società stessa. Occorre tuttavia osservare che la certezza della pena rientra nel complesso della certezza del diritto, la quale viene meno nella misura in cui sono presenti diverse interpretazioni, spesso opposte, di una legge. Allora la certezza del diritto, e quindi della coattività e imperatività della pena, sono obiettivi a cui è necessario tendere solo nel caso in cui viene meno la chiarezza e l’univocità della legge in esame. La pena è parte del procedimento giudiziario ed è stabilita dal giudice conformemente alle leggi dello Stato, le quali, citando Cesare Beccaria nel suo “Dei delitti e delle pene”, dice

Quando il giudice sia costretto, o voglia fare anche soli due sillogismi, si apre la porta all’incertezza”.

Nonostante le numerose controversie, amnistia e indulto hanno sempre partecipato alla vita giudiziaria prima del Regno d’Italia, sebbene l’amnistia fosse assimilata nel concetto di “Grazia”, provvedimento concesso direttamente dal Re, e poi nella Repubblica. Dal punto di vista storico, è importante ricordare l’amnistia del 1946, anche detta “Amnistia Togliatti”, proposta dal segretario del Partito Comunista che, nell’immediato dopoguerra, ricopriva la carica di ministro della giustizia. Con un provvedimento del governo provvisorio presieduto da De Gasperi, Togliatti decretò l’amnistia per tutti i reati di guerra, a sfondo politico, commessi dopo l’otto settembre del 1943. Allo stesso modo è interessante notare che anche l’indulto è stato ben presente nella storia della Repubblica. Sono infatti stati venti i casi di concessione di indulto dal 22 giugno 1946, quando, successivamente all’amnistia, il ministro Togliatti concesse anche l’indulto per reati comuni, politici e militari. Ma forse i casi di indulto più controversi sono due, di cui ha beneficiato il noto criminale romano Massimo Carminati. Il primo fu quello del 22 dicembre 1991, con esso il boss romano riuscì a far condonare un anno e sei mesi di reclusione per rapina e detenzione illegale di armi, inoltre sempre con lo stesso indulto Carminati vide estinguersi la condanna, del 1988, ad otto mesi per “ricettazione”. Il secondo indulto del quale beneficiò fu quello del 31 luglio 2006, dal quale riuscì ad ottenere l’estinzione della pena di 4 anni per il furto nel caveau della città giudiziaria di Roma.

Ma nonostante tutto i numeri provenienti dalle carceri italiane sono enormi: secondo le fonti del Partito Radicale la capienza totale delle carceri è di 50174 posti, a fronte di 55381 detenuti, ciò vuol dire che le condizioni di vita negli istituti penitenziari assai sottostimato. Pesa ancora la condanna da parte dell’Unione Europa del 2013, quando la corte di Strasburgo sentenziò la violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, la quale asserisce:

Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti.

Un altro terrificante dato è il numero di morti e di suicidi che si contano nelle prigioni italiane, secondo l’associazione “Ristretti orizzonti” i dati sono:

ANNO SUICIDI TOTALE MORTI
2011 66 186
2012 60 154
2013 43 153
2014 44 132
2015 43 123
2016 45 115
2017 31* 67*

 

*Dati raccolti fino al 31 luglio 2017

Il tema dell’amnistia e dell’indulto si presentano dunque come uniche soluzioni a fronte di una situazione, che, stando alle cifre riportate, risulta essere sempre più disastrosa. Eppure questo tema non incontra il favore dei cittadini italiani, al contrario, sono sempre più frequenti attacchi, anche da parte di esponenti politici, contro chi delinque, condannando non l’atto delinquenziale, bensì la persona. Allora procedimenti giudiziari, tesi alla garanzia di eguali diritti per i detenuti, sono esorcizzati da coloro i quali trovano consenso, sia pubblico che elettorale, nel populismo e nella demagogia. È certo che il XXI secolo abbia portato paura, timore e angoscia nella società moderna, eppure l’uomo non può abbandonare la fondamentale ricerca di giustizia e uguaglianza, dalla quale è unicamente possibile comprendere il significato di libertà.

Psicologia delle masse : tra folla e individuo

Sigmund Freud, nel suo celebre trattato “Psicologia delle masse e analisi dell’ Io” analizza i rapporti umani collettivi, soffermandosi soprattutto nelle relazioni tra folla e soggetto . Freud definisce la psicologia collettiva come ciò che studia l’ individuo inteso come membro di una tribù, popolo, classe sociale o più semplicemente di una moltitudine umana organizzata . I modelli utilizzati dall’ autore sono Le Bon e William McDougall . Il primo, tenendo ben presente il ruolo che l’ inconscio svolge all’ interno dello sconfinato mondo dell’ agire umano, si pone tre interrogativi fondamentali :  Cos’è un gruppo ? Donde li deriva il potere di esercitare un’ influenza tanto decisiva sulla vita psichica dell’ individuo ? In che cosa consistono le modificazioni psichiche che esso gli impone ? Prima di rispondere a questi tre quesiti, Le Bon definisce il concetto di “anima collettiva “; questa nozione avrà un ruolo fondamentale non solo in Freud, ma anche in tutto il corso della storia della psicologia :

Il fatto più notevole che si può osservare in una folla psicologica è questo :quali che siano gli individui che la compongono, per quanto il loro tipo di vita, le loro occupazioni, il loro carattere o la loro intelligenza possano essere simili o dissimili, il solo fatto di essersi trasformati in una folla fornisce loro una sorta di “anima collettiva”

La folla in psicologia è definita come un’ entità provvisoria omogenea composta da individui eterogenei, ma ciò che a noi interessa di più sono le differenze che intercorrono tra individuo isolato e individuo nella folla . E’ importante  notare che in una moltitudine scompaiono le caratteristiche che rendono l’individuo un singolo, lasciando spazio ad un patrimonio inconscio (Le Bon si riferiva a quello della razza) che fondono l’ eterogeneo (individuo) nell’ omogeneo (folla) . Detto ciò lo psicologo francese si concentra sulle caratteristiche manifeste della folla . Prima fra tutte è il sentimento di smisurata potenza . Da un lato essa consente all’ individuo di cedere a istinti che, da solo, avrebbe facilmente tenuto a freno; dall’ altro tale potenza si trasforma in un contagio mentale che consente una rapidissima condivisione di sentimenti e passioni . Ciò priva la folla di qualsivoglia facoltà raziocinante, infatti è proprio Le Bon a definirla “influenzabile e credula”, arrivando a sostenere che il livello intellettuale della folla è di gran lunga inferiore a quello dell’ individuo . Lo psicologo francese conclude la sua esegesi sottolineando l’importanza di una figura “collante” che noi definiamo più semplicemente come capo . Il capo di una folla è colui che detiene il prestigio, il quale può essere acquisito o artificiale . Non si può far a meno di osservare, come sottolinea Freud stesso nel suo trattato, che la parte svola dal prestigio e la figura del capo della folla non si accorda con la brillante descrizione di anima collettiva, anche per questo Freud prenderà in considerazione un altro psicologo prima di elaborare la sua teoria : William McDougall  . Egli si concentra più sulla formazione che sulla natura della folla . Affinché i membri si riuniscano in un’unica massa umana, bisogna che sussistano delle caratteristiche in comune, dei fatti che interessino tutti . Quanto più quest’omogeneità è forte, tanto più sono le possibilità di creazione di un gruppo psicologico . Il fenomeno più notevole di una folla consiste nell’esaltazione e intensificazione dell’ emotività degli individui che la compongono . E’ importante notare come McDougall riesca ad abbattere quel muro creato da Le Bon tra individuo e folla . Lo psicologo francese crede infatti che l’anima collettiva abbatta la psiche dell’individuo, McDougall sostiene invece che l’ anima collettiva sia frutto dell’unione di tutte le personalità individuali e che l’anima collettiva dipenda totalmente dalle loro unioni .

Tra questi due modelli troviamo il pensiero di Sigmund Freud . Lo psicologo di Freiberg sposta la sua attenzione sulle relazioni tra folla e individuo . Egli infatti sostiene che entrambi gli studiosi sono riusciti a spiegare queste relazioni solo attraverso il concetto di suggestione : Le Bon parlava infatti di suggestione esercitata dal capo, McDougall di una suggestione scaturita dall’ omogeneità degli interessi dei singoli . E’ proprio Freud che introduce il concetto di libido nella psicologia collettiva . Egli definisce così “l’energia delle pulsioni attinenti a tutto ciò che può venir compendiato come amore”. I legami emotivi costituiscono dunque, a suo parere, l’essenza della psiche collettiva.”…la massa viene evidentemente tenuta insieme da qualche potenza. A quale potenza potremmo attribuire meglio questo risultato se non a Eros, che tiene unite le cose nel mondo?”. Nella riflessione freudiana assume particolare spicco il bisogno di essere in armonia con gli altri. Per capire meglio questo concetto Freud ritorna sulla morfologia della folla . Secondo lui esistono due tipi di gruppi : quelli con un capo “visibile” e quelli senza un capo “visibile”. A questo punto prende come esempio due gruppi, che noi conosciamo bene, per spiegare la funzione della libido : la Chiesa (gruppo senza un capo visibile) e l’ esercito (gruppo con un capo visibile) . E’ importante notare come sia Chiesa che Esercito presentano un capo che ama in egual misura i proprio sudditi (Cristo, il Comandante in capo)  . Allo stesso modo tutti gli individui sono uniti da legami libidici verso il loro capo e verso ogni singolo membro della comunità . Freud infatti rimprovera ai precedenti studiosi un mancato approfondimento nella figura del capo e dei suoi legami con i suoi sudditi. Inoltre, continua Freud, legami affettivi nei confronti di un capo e di tutta la comunità limitano e modificano quei legami che l’individuo forma con se stesso .  L’amore nei confronti degli altri, infatti, induce il singolo a limitare l’amore nei sui confronti, cosicché risulta ancora una volta facile individuare l’origine del fenomeno-massa.  Il padre della psicoanalisi quindi non solo rivoluziona la psicologia collettiva spostando la sua ricerca nei legami tra capo-individuo, ma allarga la sua celebre Teoria dell’ Affettività all’ analisi delle masse . Per rafforzare la sua tesi Freud analizza il panico collettivo . Secondo lui il panico non è altro che la rottura di tutti i legami libidici all’interno di un gruppo, che può essere generata dall’improvvisa assenza del capo . Quei rapporti che avevano unito l’individuo al gruppo cessano di esistere, facendo così riaffiorare quei antichi legami che aveva precedentemente sviluppato con se stesso . Tale concetto si manifesta in situazioni di panico quando appunto l’individuo pensa solo alla propria salvaguardia . Questa teoria psicologica elaborata nel 1921 è ancora la base della psicologia collettiva e ancora oggi nessun teoria non è stata in grado di superarla .

Il panteismo di Spinoza : Deus sive Natura

Baruch Spinoza nell’ introduzione del Trattato sull’ emendazione dell’intelletto ci racconta la delusione nei confronti dei comuni valori della vita e la ricerca di un Bene Vero, capace di dare senso all’ esistenza e di colmare la sete umana di felicità . Con queste pagine, giudicate da tutti come un capolavoro di letteratura filosofica, il pensatore di Amsterdam dimostra che i beni agognati dall’ umanità sono transeunti e incapaci di appagare l’animo e la mente . Queste considerazioni morali, che costituiscono solo una piccola parte dell’ etica spinoziana, sono opposte ad un altro modello, che possiamo ricondurre al cuore del suo pensiero . Spinoza infatti sostiene  un amore per la cosa eterna ed infinita, che riempie l’animo di pura letizia e lo rende immune da ogni tristezza  . E’ importante sottolineare che questa cosa eterna e infinita, contrariamente a moti filosofi di matrice cristiana, si identifica con l’ unione della mente con la natura .

La metafisica di Spinoza si stacca particolarmente dal filone giudaico-cristiano in quanto afferma che Dio e il mondo non sono due Sostanze separate, ma sono la stessa Sostanza ( che lui intendeva come ciò che è in sé e per sé si concepisce ) . Questo implica che Dio non è esterno al mondo creato, ma coincide con quell’assoluta realtà che è la Natura .Tale concetto è infatti contenuto nella celebre massima Deus sive Natura . In questo modo Spinoza approda in una concezione di “panteismo cristiano”, nella quale  identifica Dio, la Sostanza e la Natura . Ma il panteismo spinoziano non si limita ad una definizione . Per capirlo affondo è prima necessario conoscere due concetti fondamentali nella sua metafisica : gli attributi e i modi . Spinoza diceva che gli attributi sono ciò che l’intelletto percepisce della sostanza come costituente della sua stessa esistenza, più semplicemente possiamo intenderli come qualità essenziali della Sostanza . Tuttavia l’uomo conosce solo due degli infiniti attributi della Sostanza che sono l’estensione e il pensiero, i quali sono due manifestazioni della stessa Sostanza. I modi invece sono affezioni della Sostanza, in altre parole le concretizzazioni particolari degli attributi : si identificano quindi nei singoli corpi o nelle singole idee . Quando Spinoza distingue tra la Natura naturante (Dio e i suoi attributi, considerati come causa)e la Natura naturata (ossia l’insieme dei modi, visti come effetto), non fa che ribadire panteisticamente che la Natura è madre e figlia di se medesima, infatti egli afferma “ Dio deve essere detto causa di tutte le cose” . E’ importante notare che questo pensiero assume un significato totalmente innovativo poiché l’ effetto non esiste al di fuori della causa, ma in essa stessa secondo uno schema di causalità immanente . Possiamo riassumere affermando che, dal momento che nulla è fuori da Dio, Egli non “crea” qualcosa di diverso da sé ma piuttosto si modifica, cioè si esprime in infiniti modi determinati .

Le lucciole di Pasolini, il vuoto politico e filosofico della modernità

Il primo febbraio del 1975 sul Corriere della Sera, Pasolini pubblica un articolo chiamato “il vuoto del potere in Italia”, che divenne poi famoso con il nome di “articolo delle lucciole”, così pubblicato negli Scritti Corsari . Con estrema dolcezza poetica Pier Paolo Pasolini denuncia un “qualcosa causato da  gravissime trasformazioni sociali”. Tale “qualcosa” viene paragonato alla rapida scomparsa delle lucciole nelle campagne italiane . Attraverso questa metafora, l’autore compie un’ analisi sociologica (quasi filosofica) dell’ Italia di quegli anni . La storia della Repubblica italiana, secondo Pasolini, può essere divisa in tre grandi periodi :  prima della scomparsa delle lucciole, durante la scomparsa delle lucciole e dopo l scomparsa delle lucciole . Il periodo prima della scomparsa delle lucciole, che coincide con un dominio politico totalmente democristiano, altro non è che una continuazione del regime fascista “ violenza poliziesca, disprezzo per la Costituzione, continuità dei codici, medesimi valori (Chiesa, patria, famiglia, obbedienza, disciplina e ordine)” . La Repubblica Italiana, continua Pasolini, nasce e cresce con tali valori, ma è in grado di opporre al fascismo solo una democrazia puramente formale . Ma gli occhi degli italiani, anche quelli meno lungimiranti, riuscivano, o forse si illudevano, che sotto questi formalismi qualcosa c’era, e questo qualcosa erano proprio le lucciole . Gli stessi occhi non riuscirono però a vedere la fase durante la scomparsa delle lucciole . Nessuno infatti si accorse che si stava confondendo il benessere con una crescita economica puramente falsa . Vuoi infatti per l’ ammaliante fascino malvagio della società dei consumi, vuoi per la complessità di quel periodo storico, le lucciole scomparvero una ad una . Si approda così nel periodo  dopo la scomparsa delle lucciole . Questo è il periodo del vuoto, il periodo in cui dietro i volti sorridenti dei politici vi è il nulla . Questo vuoto non è solo politico, ma si estende sia alla società che al mondo di pensare . Tale situazione può essere interpretata come promotrice del nichilismo di Lyotard, Vattimo e Galimberti . E’ lecito dunque dire che alla scomparsa delle lucciole di Pasolini corrisponde la fine dell’ epoca Moderna, sostituita dal “Post-moderno” . Questo nuovo scenario filosofico oscilla tra chi sostiene una “morte dell’ esperienza”, rifacendosi al nichilismo di  Nietzsche e Heidegger, e chi propone un barlume di speranza, presentandosi però come una vana illusione in un mondo roso dalla società dei consumi . Nel 2010 però il filosofo e critico d’arte francese Georges Didi-Huberman pubblica un libro “come le lucciole”, in cui, analizzando proprio l’ articolo di Pasolini, propone uno scenario diametralmente diverso . Secondo lui la luce delle lucciole non è sostituita dal buio, ma da un enorme faro che proietta luce artificiale . Il post moderno, possiamo riassumere, non ha sconfitto le piccole lucciole cancellandole dalla storia, ma le ha rese obsolete, come una piccola luce naturale coperta da un faro abbagliante .

Cosa sono dunque le lucciole ? Apparentemente, dall’ articolo di Pasolini, possiamo intenderle come ideali politici, ai nostri occhi anacronistici . Ma proprio il poeta friulano lascia intendere una concezione assai più profonda . La definizione di lucciole spazia infatti tra le sorgenti della cultura popolare e un sistema di pensiero ormai scomparso . Per capirla a fondo però bisogna conoscere il “il comune sentire” tanto caro a Pasolini che, attraverso parole molto poetiche, celebrava così :

Io, purtroppo, questa gente italiana, l’ avevo amata : sia al di fuori egli schemi del potere, sia al di fuori degli schemi populistici e umanitari . Si trattava di un amore reale, radicato nel mio modo di essere .

Ritrovare le lucciole vuol dire ritrovare la propria capacità di sentire, fuggendo l’ abbagliante luce del faro, come diceva proprio Georges Didi-Huberman, per andarle a cercare nella notte dove sopravvivono e si amano . Oppure, come diceva Pasolini, bisogna dare via l’intera Montedison (oggi noi forse diremmo Luxottica) per una lucciola .

La tranquillità dell’ animo : la misura contro la nausea

 

Non tempestate vexor sed nausea (non soffro per un tempesta ma per nausea) . Così Sereno riassume i suoi tormenti, invocando l’aiuto del suo maestro Seneca . Il De tranquilltatate animi è uno dei dialoghi di Seneca più profondi, ma sicuramente è quello più attuale . Sereno infatti è un giovane politico romano, fedele alla dottrina stoica (conosce bene la dottrina del suo maestro), ma è afflitto da sofferenze dell’ animo . Rifugge il vitium eppure non riesce a liberarsi del morbo che lui stesso definisce fluctuatio (oscillamento) . Seneca, all’inizio di quest’opera, ci offre infatti un’ immagine meravigliosa : un navigante, ormai in vista del porto (metafora propria del mondo antico, che indica sapienza) è tormentato non dalla tempesta che si è lasciato alle spalle, ma dall’ oscillare continuo di un mare che non è ancora calmo .  Sereno quindi non si sente ancora pronto per raggiugere la sapienza, così si appella al suo maestro spirituale. Seneca sa bene che raggiungere la tranquillitas è assai più difficile di fuggire il morbus, anche per questo il filosofo di Corduba esordisce citando Democrito, considerato da molti uno dei precursori e ispiratori  dello stoicismo . Seneca riprende infatti il concetto di εὐθυμία, che traduce con il sostantivo latino tranquillitas . Democrito invita infatti a fuggire le imprese che sono più grandi di noi, ma soprattutto esortava a non osservare coloro che sono inviadiati, ma di volgere i nostri sguardi ai più poveri e a coloro che stanno male affinché le nostre sofferenze, al confronto, ci appaiano inferiori . E’ necessario ora riflettere sull’ attualità di questo pensiero . Bisogna ricordare che Sereno è un giovane politico romano, che si sta preparando al carriera pubblica . Da questo momento, Sereno deve ricordare che la buona politica consiste nell’occuparsi degli ultimi e dei più deboli . Seneca quindi non sta solo parlando a Sereno, un giovane stoico romano, ma si sta appellando anche a tutta la classe dirigente romana affinché non smarrisca il proprio obbiettivo . Visti e considerati i tempi moderni un messaggio del genere non è solo universale, ma anche eterno . Ovviamente l’ attualità del pensiero senecano non si esaurisce qui . Seneca ricorda al giovane Sereno che la chiave per la tranquillità dell’animo si trova nell’ equilibrio tra il deprimersi e l’ esaltarsi, il continuo ondeggiare tra questi due stati d’animo infatti porta al sibi displicere (l’essere scontanti di sé). Il deprimersi conduce ad un’inerzia infelice, che alimenta il livore e la malvagità . A questo punto Seneca ci offre altre due immagini bellissime . Nella è descritto prima  un’ uomo depresso per la scabbia che gode nel grattarsi le proprie ferite . Nella seconda Seneca ricorda Achille che si girava continuamente nel letto in seguito alla morte di Patroclo . Entrambe le immagini richiamano quindi una sofferenza propria di un sintomo depressivo, ma che può avvicinarsi alle sofferenze causate dal troppo entusiasmo . Seneca infatti si concentra sull’ incostanza dell’ esaltazione e sull’ eccessiva depressione . Entrambi gli stati d’ animo alimentano il livore, il morbus del nostro animo, che noi dobbiamo combattere con la virtù . Il concetto di virtus è fondamentale nella dottrina stoica, qui Seneca lo definisce come la capacità di mescolare il sentimento e la ragione, l’ esaltazione con la depressione, l’ozio con il necotium . L’uomo virtuoso è l’uomo saggio, che non esagera né si tira indietro . A tal proposito Seneca riapre il discorso della paupertas, ma sta volta dalla parte dei poveri . Seneca affronta la questione apparentemente in modo assai semplice :

Dunque dobbiamo pensare quanto più lieve sia non avere che perdere : e comprenderemo che la povertà ha tanto meno materia di sofferenze quanto minore ne ha di danni

La condizione di povertà infatti consente all’ uomo una condizione più serena, in quanto non può perdere nulla . Seneca non esorta però a fuggire tutte le ricchezze come facevano i cinici, ma semplicemente di misurarle : Adsuescamus a nobis remuovere pompam et usus rerum, non ornamenta metiri (abituamici a rimuovere lo sfarzo e a misurare l’utilità, non gli ornamenti delle cose) . Il messaggio di Seneca è assai importante e non meno attuale . Una vita serena è una vita all’insegna della semplicità, della purezza e gli eccessi devono essere rimossi; tale concetto è allargato non solo alle cose materiali, ma anche al nostro animo e ai nostri pensieri . La soluzione per sconfiggere l’eccesso è  solo una :  è necessario chiedere ricchezze a noi piuttosto che alla sorte . La “grandezza” della famosa massima senecana ( La grandezza dell’uomo sta nel sopportare con serenità le avversità degli uomini e del destino) è proprio questa . L’ uomo ha in sé la capacità di misura, di pensiero, solo quando l’uomo è capace di misurare allora si può dire sereno  . Sereno, uomo politico romano, ha ora la chiave per instaurare un saldo rapporto con sé stesso e con gli altri, può governare in maniera corretta e soprattutto è capace di affrontare i propri turbamenti.   Adesso la nave di Sereno può avere un tragitto calmo e arrivare al porto della sapienza .

Le origini dell’ idea dell’ anima : Platone ed Epicuro a confronto

Nella Grecia antica, uno dei più importanti argomenti di discussione e speculazione filosofica era il concetto di anima . Numerosi filosofi ne hanno discusso, ma tutti hanno contribuito fortemente alla costruzione di un’ idea “moderna”  di anima . Platone ed Epicuro ci offrono due visioni dell’ anima quasi antitetiche, ma che hanno avuto pesanti ripercussioni nella storia del pensiero occidentale .

Platone era solito definire l ‘anima con il sostantivo πνεύμα (pneuma), intendendo “un’ idea dello spirito diffusa “ . Il Dialogo platonico di riferimento è senza dubbio il Fedone: in quest’ opera si inaugura infatti  l’innatismo,  uno dei capisaldi della dottrina platonica che verrà poi ripreso dal razionalismo cartesiano (tralasciamo ovviamente le forti ripercussioni che ha avuto sulla dottrina del Cristianesimo) . A questa dottrina il filosofo ateniese collega il concetto di “reminiscenza”: l’ anima, essendo sempre esistita, garantisce delle conoscenze innate .Oltre a sostenere la preesistenza dell’anima, Platone era anche convinto della sua immortalità e della sua eternità: l’anima è viva per definizione e un corpo è vivo o morto a seconda che abbia o meno un’anima; l’anima, quindi, dà e toglie la vita. E’ un qualcosa che partecipa all’idea di vita e che di conseguenza non può partecipare a quella di morte. Dal punto di vista gnoseologico, l’anima disincarnata coglie facilmente le idee nell’Iperuranio perché solo lì (in assenza del corpo) essa è veramente libera e da sola corrisponde all’ essere intellegibile ; il corpo invece corrisponde all’ essere sensibile , tant’ è che è corruttibile ed impedisce all’ anima di cogliere il vero essere , che non è il nostro mondo , bensì quello delle idee ( di cui il nostro è solo una pallida copia ) . All’ anima libera dell’ Iperuranio si contrappone l’ anima prigioniera del corpo, così infatti Platone, attraverso le prole del suo maestro, conclude il Fedone :

“Sembra ci sia un sentiero che ci porta, mediante il ragionamento, direttamente a questa considerazione: fino a quando noi possediamo il corpo e la nostra anima resta invischiata in un male siffatto, noi non raggiungeremo mai in modo adeguato quello che ardentemente desideriamo, vale a dire la verità. Infatti, il corpo ci procura innumerevoli preoccupazioni per la necessità del nutrimento; e poi le malattie, quando ci piombano addosso, ci impediscono la ricerca dell’essere. Inoltre, esso ci riempie di  amori, di passioni, di paure, di fantasmi di ogni genere e di molte vanità, di guisa che, come suol dirsi, veramente, per colpa sua, non ci è neppure possibile pensare in modo sicuro alcuna cosa. In effetti, guerre, tumulti e battaglie non sono prodotti da null’altro se non dal corpo e dalle sue passioni. Tutte le guerre si originano per brama di ricchezze, e le ricchezze noi dobbiamo di necessità procacciarcele a causa del corpo, in quanto siamo asserviti alla cura del corpo. E così noi non troviamo il tempo per occuparci della filosofia, per tutte queste ragioni. E la cosa peggiore di tutte è che, se riusciamo ad avere dal corpo un momento di tregua e riusicamo a rivolgerci alla ricerca di qualche cosa, ecco che, improvvisamente, esso si caccia in mezzo alle nostre ricerche e, dovunque, provoca turbamento e confusione e ci stordisce, sì che, per colpa sua, noi non possiamo vedere il vero. Ma risulta veramente chiaro che se mai vogliamo vedere qualcosa nella sua purezza dobbiamo staccarci dal corpo e guardare con la sola anima le cose in se medesime.

Nella Repubblica, ma anche nel Fedro, Platone avanza anche una tripartizione dell’ anima . Secondo il filosofo, l’ anima dell’uomo può essere razionale (che risiede nel cervello, appartiene alla classe sociale dei filosofi, ed ha come metallo rappresentativo l’oro) irascibile (che risiede nel cuore, appartiene ai guerrieri e ha come metallo rappresentativo l’argento) e concupiscibile (che risiede nelle viscere, appartiene agli artigiani e ha come metallo rappresentativo il rame) . In base a questa divisione dell’intelletto, Platone costruirà la sua città ideale, proiettando la divisione dell’anima in una divisione sociale, che costituisce il pensiero politico espresso nella Repubblica .

Diogene Laerzio, parlando della dottina dell’ anima di Epicuro, dice “ἡ ψυχὴ σῶμα ἐστι λεπτομεπὲς παρ’ ὅλον τὸ ἄθροισμα παρεσπαρμένον” (l’anima è un corpo costituito da particelle sottili) . Non a caso lo storico della filosofia pone il la riflessione sull’ anima subito le riflessioni sugli atomi , nel decimo libro della sua maggiore opera .  Già della parola σῶμα, è chiaro che Epicuro dà all’anima una natura corporea, quasi corpuscolare, successivamente Il filosofo di Samo si concentra sul concetto del’ anima come πλείστην αἰτίαν (prima causa) delle sensazioni . L’ anima è capace di realizzare l’effetto della sensazione per poi distribuirlo su tutto il corpo . Il corpo invece si occupa di ricevere il fascio di atomi, (simulacrum, come ci racconta Lucrezio nei sui versi)   per questo, precisa Epicuro, l’anima non può essere “prigioniera nel corpo” . L’anima, una volta abbandonato il corpo si dissolve, perdendo così la capacità di carpire (verbo usato proprio da Lucrezio) le sensazioni . Infine Epicuro critica una visone incorporea dell’ anima . Egli sostiene infatti che l’incorporeo può essere pensato solamente come vuoto, ma poiché il vuoto non può far patire nulla, limitandosi a offrire il movimento attraverso di sé, l’ anima non può che essere formata da materia . Diogene Laerzio cita poi altre fonti riguardo ad una divisione dell’anima : quella razionale (situata nel petto) e quella irrazionale (spersa in tutto il resto del corpo) . La divisione dell’ anima è stato oggetto di discussione anche da parte dell’ epicureista Lucrezio, il quale dedicò il III libro del suo De rerum natura alla divisione tra  animus e anima . Per il filosofo latino l’ animus è la sede delle facoltà razionali e dei sentimenti, mentre l’ anima è la forza vita, la sensibilità che si diffonde in tutto il corpo .

Numerosi sarebbero i collegamenti da approfondire, ci basta però concludere affermando che queste due scuole filosofiche hanno contribuito allo “scontro” tra razionalismo e empirismo, idealismo e materialismo e che ancora oggi inonda la nostra mente di domande .

Onde, universo ed infinito : la meraviglia alla base della filosofia

Abbiamo sempre pensato che la fisica fosse una scienza chiara, solida e assoluta. Abbiamo sempre concepito il tempo, lo spazio e l’energia come concetti che si potessero capire. Abbiamo sempre creduto che tutto quello che ci circonda, dalla particella più piccola alla stella più grande, potesse essere compreso. L’ abbiamo sempre pensato, ma non avevamo fatto ancora i conti con le onde.

Non molto tempo fa si è scoperto che l’elettrone, l’unità più piccola della materia, non è cosi solida come si credeva. Si è affermato che esso non esiste sempre, o meglio, esiste solo quando   interagisce con qualcos’altro –  per esempio noi –  quando lo osserviamo . Quando nessuno li disturba, non si trovano da nessuna parte, non sono in alcun luogo. Ma c’è di più: non possiamo conoscere contemporaneamente i valori precisi di posizione e velocità dell’ elettrone, possiamo solo calcolarne la loro probabilità. L’elettrone diventa quindi un’onda, più precisamente un’onda di probabilità, un flusso elettromagnetico, di cui non si conosce né luogo né tempo . Improvvisamente tutto diventa più oscuro. L’universo che abbiamo sempre immaginato, quel sistema chiaro e distinto che avevamo teorizzato, è diventato solo un’unione di tante piccole onde probabilistiche.  Apprendiamo che la natura può non esistere quando noi non interagiamo con essa. Com’è possibile? Come può l’infinito universo essere basato su un’onda di mere probabilità? Cos’è allora il cielo, i pianeti, le stelle e le galassie? Che cosa significa la natura che ci circonda? Che cosa diventa la vita?

L’uomo, fin dalla sua origine, ha sempre guardato al cielo per trovare ordine nella sua mente. Ha sempre pensato che se esiste davvero qualcosa di perfetto esso si trova sopra di noi, mentre osserva e regola con le sue leggi la realtà che noi viviamo. Ha creduto che lì, risiedesse la giustizia e che ci fosse la libertà. Desiderava esplorarlo, vederlo, capirlo in profondità, perché sapeva che lì si nascondeva qualcosa di grande, molto più grande di lui stesso. Ha capito che la Terra non può essere il centro dell’universo, che il Sole non può girare intorno a essa e ha scoperto che ci sono miliardi di stelle e di pianeti, alcuni simili al nostro, che non vede l’ora di esplorare e conoscere. Ma la ricerca non finisce qui . L’uomo guarda alla nascita dell’universo per capire da dove tutto ha origine, ma soprattutto per capire se stesso. Perché, anche se facciamo finta di negarlo, sappiamo con certezza che veniamo da lassù, che siamo una realtà irrilevante in confronto all’ immensità del cosmo. Ma siamo anche costituiti dalla stessa immensità di cui l’universo è formato: la natura. Siamo polvere di stelle, di piccolissime onde che oscillano tra l’esistere e il non esistere, che non sono in nessun luogo quando noi non le osserviamo, eppure costituiscono questo infinito che tanto vogliamo conoscere .

Eppure questo non ci basta, vogliamo conoscere ancora di più, vogliamo capire cos’è l’ infinito da cui noi deriviamo, perché sappiamo che quando avremo il senso dell’ infinito, allora avremo il senso anche di noi stessi e della nostra vita. Ma è qui che forse le nostre onde nascono, qui, al centro di un oceano che riflette la bellezza dell’ ignoto . Ed è qui che ci lasciamo sbalordire .

Dalla meraviglia quindi, come diceva Aristotele, nasce il desiderio di conoscere e di spiegare la realtà . E’ proprio dell’ uomo essere pieno di stupore: e il filosofare non ha altro inizio che l’essere pieno di meraviglia. Questa parola , che Aristotele pone all’ inizio della filosofia, sta a significare anzitutto lo sgomento ancestrale nello scoprire il divenire di tutte le cose, la paura di fronte alla consapevolezza che il mondo, e noi con lui, è sottoposto ad un ciclo continuo di nascita e di morte, la volontà di trovare un rimedio alla fine e la gioia di conoscere se stessi nell’ assoluta contemplazione del cosmo .

Sicuramente Aristotele non conosceva ne’ gli elettroni ne’ le onde, ma aveva scoperto il raccordo tra scienza e filosofia, il legame tra uomo e l’ universo. Così lo Stagirita parlava della meraviglia “Gli uomini, all’inizio come adesso, hanno preso lo spunto per filosofare dalla meraviglia, poiché dapprincipio essi si stupivano dei fenomeni più semplici e di cui essi non sapevano rendersi conto, e poi, procedendo a poco a poco, si trovarono di fronte a problemi più complessi, come i fenomeni riguardanti la Luna, il Sole, le stelle e l’origine dell’universo”. (Aristotele, Metafisica)